Dal punto di vista della comunicazione, l’idea di far svolgere il G8 tra le macerie del terremoto dell’Aquila e non sull’isola de La Maddalena è stata di forte impatto, non solo emotivo. Una sfida vinta, bisogna ammetterlo. Le immagini di Barack Obama e di Silvio Berlusconi stretti in silenzio davanti al Palazzo di governo dell’Aquila completamente distrutto hanno fatto il giro del mondo assumendo una forza espressiva degna dei grandi eventi mediatici. Così come la visita del cancelliere tedesco Angela Merkel al paesino di Onna o la commozione di Michelle Obama davanti alla Casa dello studente o la passeggiata delle first lady, munite di caschetto della Protezione civile, in mezzo alle macerie, o le numerose strette di mano ai Vigili del fuoco o lo striscione con la scritta «Yes, we camp» o gli sguardi «indiscreti» dei leader sono immagini che vanno oltre la pura cronaca e si ergono a testimonianze capaci di rivelare qualcosa di sconosciuto, e raccontare qualcosa di più su noi stessi e sul mondo.
Attraverso questa immersione nella disastrografia - L’Aquila è il ground zero di un’Italia ferita dal sisma - è come se l’immagine tutta del G8 si sia redenta: in tv, sulla stampa, nella Rete. Non solo lasciandosi alle spalle il ricordo dei terribili scontri di Genova (anche quando il G8 si è svolto in altre sedi, la memoria è sempre legata alla protesta, agli scontri tra manifestanti e polizia), ma fornendo una nuova rappresentazione di queste riunioni dei Grandi. Di solito, gli incontri dei potenti sembrano cerimonie chiuse, impenetrabili, blindate: un gruppo ristretto di persone discute dei destini del mondo, ma lontano dal mondo. Sono liturgie di una nuova governance mondiale, vissute però come rituali anonimi, invisibili, e perciò sostanzialmente fittizi e inutili. Le case distrutte dal terremoto, le ferite ancora aperte, la caserma della Guardia di Finanza di Coppito, lo stato di precarietà in cui si è svolto il G8 dell’Aquila hanno dato prima di tutto visibilità all’incontro, immergendolo nella realtà di tutti i giorni, come mai prima era successo. Per questo Obama, nella conferenza di congedo, ha promesso la ricostruzione della città, come primo atto concreto della riunione.
Le fotografie possono essere ricordate più facilmente delle immagini in movimento, perché fissano un istante, lo sottraggono al flusso televisivo, e queste foto rappresentano appunto un momento privilegiato, di riflessione. I Grandi della terra che si aggirano per le rovine sono immagini che assurgono immediatamente a simbolo, sintetizzano una presa di coscienza, diventano più reali del reale. Ma c’è di più: le macerie, dal punto di vista allegorico, rappresentano la volontà di ricostruire (non solo L’Aquila, ma tutto il Sud del mondo, le zone che necessitano di aiuti immediati), di rifondare un nuovo ordine del mondo, di dare vita a un ciclo nuovo: the day after tomorrow, l’alba del giorno dopo. Nella storia della rappresentazione, dal racconto del diluvio agli ultimi giorni di Pompei, dai film del filone catastrofico all’interminabile notte di Vermicino, il disastro serve a stimolare l’attenzione, la compassione, persino il senso estetico.
Come ci ricorda Borges con le sue famose domande: «Perché ci attrae più la caduta di Troia che le vicissitudini degli achei? Perché preferiamo l’Inferno della Commedia al Paradiso? Perché, istintivamente, pensiamo alla sconfitta di Waterloo e non alla vittoria?...». Il tragico, catturato dai media, implica la promozione di un fatto a una categoria superiore: la sua enigmaticità si accresce, il suo essere raccontato o rievocato si fa esemplare. Certo, in queste foto c’è anche molta retorica, molta enfasi, forse persino una punta di cinismo. Stati d’animo, peraltro, non diversi da quelli che hanno spinto cinque famosi registi italiani, a brevissima distanza dalla tragedia, a realizzare altrettanti corti. Stessa intenzione, comunque, che ha spinto in Abruzzo George Clooney, secondo il discutibile rituale della celebrity che va a farsi fotografare in mezzo ai più sfortunati.
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